Appassionata testimonianza di Giorgio Bellinzoni, ex studente e insegnante del Viganò, che racconta il suo viaggio in Bolivia in una lunga e interessante intervista al Viganews

Il volontariato per riscoprire l’essenza della vita

Abbiamo avuto la fortuna di poter incontrare e intervistare Giorgio Bellinzoni, un giovane che ha frequentato, da brillante studente, la nostra scuola (indirizzo di informatica e telecomunicazioni) e, una volta conseguito il diploma, ha deciso di impegnarsi attivamente nel mondo del volontariato.
È stata una bella esperienza anche per noi della redazione del Viganews e in particolare per me, che ho avuto il privilegio di intervistarlo, dato che mi è piaciuto poter ascoltare una storia personale raccontata con passione e dedizione, da riuscire a trasmettermi lo stesso entusiasmo.

Quali sono i ricordi che hai del Viganò del tuo periodo come studente? E quali insegnanti ti hanno segnato di più?
«Del Viganò ho un ricordo molto bello: c’era un bel clima, e guardando i vari prof mi dicevo “mi piacerebbe una vita così”. Gli insegnanti che mi hanno ispirato di più sono stati i proff. Contento, Carlini e le proff. Sarno e Martinati. Quando ho scelto l’università era nell’aria l’idea di fare il professore, però non avevo la certezza; avevo scelto di iscrivermi a matematica grazie alla spinta della prof. Martinati, che mi disse che avrei potuto farlo, dato che mi piaceva ed ero capace. Ho seguito un percorso triennale, poi ho vissuto lo scorso anno l’esperienza da insegnante supplente al Viganò (con chiamata diretta su “messa a disposizione”) e proprio da questa avventura ho capito che insegnare è uno dei lavori più belli del mondo: è sì impegnativo, ma regala grandissimi soddisfazioni. Poi sicuramente tornare nella scuola, in cui si è stati per cinque anni, anche se dall’altra parte della cattedra, rende sicuramente tutto più facile, perché si conosce l’ambiente e le persone che ci lavorano. Non mi ritengo un professore vero e proprio, ma un ragazzo che ha fatto una meravigliosa esperienza di insegnamento».

Cosa si prova a passare da studente a prof?
«È molto strano, una sensazione particolare… non sono uno estroverso quindi è stata una sfida personale importante. Il mio obiettivo era migliorare sempre il mio livello di insegnante alle prime armi e puntando moltissimo su un approccio costruttivo e collaborativo nella relazione con gli studenti.
Una cosa che mi ha fatto ridere è che tutti i ragazzi mi davano del “lei” e ho dovuto abituarmi. Per me l’etichetta, la forma, non è importante: l’unica cosa che serve è il rispetto reciproco».

Cosa ne pensi della tua generazione rispetto a quella che hai ritrovato nelle classi di oggi?
«Essere dall’altra parte della cattedra mi ha permesso di notare cose a cui non prestavo attenzione da studente in classe. Per me non è cambiato tanto, ma c’è sempre più bisogno di sentirsi apprezzati, i ragazzi vogliono essere seguiti e capiti. Ho l’impressione che questa sia una richiesta silenziosa, ma sempre più urgente. Insomma, da prof ho notato le fragilità di ognuno, te ne rendi conto.»

Perché hai deciso di dedicarti al volontariato?
«Ho deciso di dedicarmi al volontariato un po’ per gioco. Quando ero studente al Viganò, ho avuto l’occasione di incontrare qui a scuola alcuni volontari del Mato Grosso, che ci hanno spinto a fare questa esperienza. Io ho deciso di provare ma non mi sentivo un volontario a tutti gli effetti, mi divertivo ad andare con questi ragazzi. Poi dopo mi sono reso conto che potevo vivere una vita come quelli del Mato Grosso che hanno fatto di questo progetto una parte importante della loro esistenza. Ogni giorno vedevo delle persone che vivevano delle vite che a me piacevano tantissimo, e quindi ho provato anche io a vivere come loro: tutto questo mi ha portato ad andare in Bolivia. C’è sempre da imparare dagli altri.»

Quali sono le esperienze più grandi che hai vissuto in Bolivia che ti sono rimaste più impresse?
«Dei 6 mesi che sono stato lì, me ne vengono in mente tante di cose, ma mi è difficile selezionarle e trasmettere quella che è una realtà che non si riesce a rendere bene a parole, viverla direttamente è un’altra cosa. Mi ha lasciato il segno stare con le persone che vivono a Bolivar, individui semplici che vivono di quello che raccolgono nei campi e a 4000 metri non raccogli tanto. Ti svegli e lavori, e questo lo si ripete ogni giorno. Il consumismo non ha ragione d’essere, si vive di ciò che si raccoglie. Non ci sono prospettive di miglioramento: puoi fare il contadino, l’allevatore di animali e basta.
Il paradosso è che, nella realtà privilegiata in cui ci troviamo in Italia, alcune esperienze non riusciamo più a viverle, ad apprezzarle. Sono due mondi molto diversi, che vanno in direzioni nettamente opposte: da una parte l’essenziale, dall’altra il superfluo. Questo mi ha spinto a farmi tante domande sulla mia vita. Tanti giovani boliviani che vivono in zone decentrate, vogliono andare in città ma, non sapendo leggere e scrivere, capiscono dopo che è meglio fare i contadini, vivere a diretto contatto con la terra.
Io cercavo di capire come poter aiutare le persone del posto; a volte mi recavo, affrontando un lungo viaggio in Jeep, a far visita ad alcun cosiddette “comunità” e, dopo un’ulteriore camminata di mezz’ora, mi rendevo conto che lì abitava una sola famiglia, in una casetta nel nulla, due genitori e otto figli, la pentola sul fuoco con qualche patata; si mangiava quello e poco altro. Quando sono tornato in Italia, in prossimità del Natale, ho fatto fatica a partecipare ai banchetti così ricchi, tipici del nostro Paese: ritornavo con la mente al mio vissuto in Bolivia, e questo mi creava un po’ di disagio.
In Italia, inoltre, ci sono tantissime leggi e regole, che quasi nascondono criticità come la povertà. In Bolivia la povertà e i problemi li tocchi con mano ogni giorno, non c’è una polizia che porta via i senzatetto per strada. Insomma è una vita più vera quella in questi villaggi in Bolivia. Qui è tutto un po’ finto».

Al di fuori del volontariato quali sono le tue passioni e i tuoi interessi? Hai provato a condividerli alle persone che hai incontrato in Bolivia?
«A me piace tantissimo la musica, mi piace suonare e ascoltarla. In Bolivia suonavo tanto con la mia chitarra, e ai bambini e agli adulti piaceva tantissimo. Poi quando ho tempo mi piace arrampicare, ma lì non ho mai avuto la possibilità».

Che lingua parlano dov’eri tu?
«Parlavano castigliano e quechua. Io ho imparato qualche frase, alla fine il castigliano lo parlano tutti, tranne qualche anziano. L’inglese non lo parlano, lo studiano ma con poco successo».

Pensi di fare altre attività di volontariato in futuro col Mato Grosso?
«Io adesso sto continuando a fare volontariato in Italia, con il mio gruppo di lavoro, e ho il desiderio di invitare sempre altri ragazzi per provare a farlo conoscere, per indurli a fare un’esperienza del genere. Io vorrei tornare là un giorno, per dedicare la mia vita gli altri: questa cosa mi fa sognare».

Vuoi proseguire con la carriera di insegnante?
«Mi piacerebbe tanto, anche in Bolivia ho fatto per un periodo l’insegnante ed è stato molto bello: è una cosa che a me piace. Al mondo della scuola è legato un obiettivo a cui tengo tanto: vorrei attivare qualche progetto nella scuola, come una raccolta viveri. Il mondo del Viganò è sensibile a queste attività benefiche e i suoi studenti e insegnanti sanno farsi promotori di messaggi bellissimi. Inoltre spero, caro Alessio, che questo nostro incontro non rimanga solo un articolo che uno legge e basta, ma che possa ispirare qualcuno
a fare qualcosa di concreto per gli altri, rendendo l’avventura della vita ancora più bella».

Alessio Galimberti

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