L’avventura di Stanisław Kowalski, sopravvissuto ad Auschwitz (terza e ultima parte)
Ultimo appuntamento con l’appassionante storia di Stanisław Kowalski, soldato polacco che riuscì a fuggire dal famigerato lager di Auschwitz, bisnonno di Victoria, studentessa della 5 D. In questa puntata, c’è un interessante accenno al dramma nel dramma: la violenza sulle donne durante la guerra.
Nessuna risposta di Józef: Stanisław prosegue da solo
Dopo essere uscito vivo con uno stratagemma dalla camera a gas, Stanisław cerca di ricongiungersi al suo amico Józef, facendo il segnale convenuto. Purtroppo, però, dopo due ore di attesa, non ricevette risposta: sentiva solamente le urla dei tedeschi e i comandi che essi davano ai prigionieri. Con rammarico, il mio bisnonno iniziò ad incamminarsi nel bosco, ma quando venne l’alba, fu costretto a nascondersi per tutto il giorno, aspettando di nuovo che facesse buio per poter arrivare a un paese vicino e per non essere scoperto dai nazisti.
Passò due notti nel bosco e all’alba del terzo giorno arrivò al paesino lì vicino, un paese di campagna, con le ultime forze che aveva. A spronarlo a proseguire, fu la sua voglia di vivere e di rivedere la sua famiglia.
La gente del paesino gli diede dei vestiti, siccome lui era nudo, e qualcosa da mangiare, però non accettò di essere ospitato per paura di mettere qualcuno in pericolo e perché voleva incamminarsi al più presto. Perciò dormì in una stalla per un paio di notti e appena si riprese un po’, si rimise in viaggio.
Riuscì a raggiungere i partigiani polacchi, a cui poi si unì e rimase fino alla fine della guerra, combattendo per la sua patria.

Stanisław torna a casa, ma la felicità dura poco
Alla fine della guerra, nel 1945 ritornò a casa dalla sua famiglia, a Kamień, ma era molto malato: durante la guerra, era rimasto ferito ed aveva altresì un’ernia inguinale molto grande e dolorosa. Quando si riprese, ricominciò a lavorare sulla sua terra, a occuparsi di sua moglie e dei suoi due figli (nati rispettivamente nel 1936 e nel 1938), che poi divennero tre quando nacque una bambina ad ottobre dell’anno successivo, ossia mia nonna Krystina Kowalska.
Al tempo per lavorare la terra veniva utilizzato un macchinario simile all’aratro, trainato da un cavallo, che si attaccava con delle cinghie dalla ruota all’animale. Un giorno, durante il 1949, mentre il mio bisnonno stava lavorando nel suo campo, un suo amico, passando per di lì, lo salutò.
Sfortunatamente, i suoi figli avevano insegnato al cavallo ad alzarsi sulle stampe posteriori, quando qualcuno diceva “cześć” (“ciao” in italiano). Durante questo movimento improvviso, il macchinario colpì la pancia di Stanisław: purtroppo, quel giorno, lui non stava indossando la cintura protettiva, per cui il manubrio dell’aratro gli perforò l’addome e lui morì sul colpo.

La violenza sulle donne durante la guerra: una pagina trascurata dai libri di testo
Durante tutta la sua vita dopo l’arrivo a casa, il mio bisnonno cercò sempre il suo amico, nella speranza che anche lui si fosse salvato; infatti, vivevano in paesi vicini, ma non ebbe più notizie di Józef, né di sua moglie. Ipotizzò che quest’ultima fosse scappata per paura delle ripetute violenze dei militari sovietici sulle donne. Come raccontò poi la mia bisnonna, quando passavano questi militari, siccome non c’erano gli uomini perché erano in guerra e quelli che erano rimasti a casa erano perlopiù bambini, anziani e donne, quest’ultime e, persino le bambine, venivano violentate.
Nel caso in cui esse si opponevano, i militari davano fuoco alla loro casa. La maggior parte dei bambini nati durante la Seconda guerra mondiale erano la conseguenza di questi abusi.
Di questi avvenimenti crudeli non si è mai parlato nei libri, perché molte persone non hanno mai creduto a queste donne, anche se in Polonia ci sono moltissime testimonianze a riguardo. I pochi uomini che tornarono dalla guerra decisero di riconoscere questi figli come propri.
La mia bisnonna riuscì a non farsi mai violentare da questi militari, perché utilizzò come nascondiglio un buco sotto al pavimento di casa sua, che veniva solitamente scavato nelle case di campagna e dove si tenevano le patate, le barbabietole, le cipolle o le mele, per far sì che non germogliassero.
A differenza di molti superstiti dei campi di sterminio, che, a causa del trauma subito, dimenticarono ciò che lì era accaduto, il mio bisnonno si ricordava tutto e raccontò di queste atrocità disumane a sua moglie, che stentava a crederci.
Lui era rimasto traumatizzato, ma volle fortemente che nulla fosse dimenticato.
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