Gli studenti incontrano il diacono Vincenzo Alampi, ormai ex direttore della Caritas di San Ferdinando e Rosarno della Diocesi di Oppido Mamertina – Palmi e attualmente “Responsabile dell’Osservatorio Pastorale delle Ultimanze”.
In un’Aula Magna gremita di studenti, il 29 e 30 novembre, Vincenzo Alampi ha raccontato la realtà di un campo di accoglienza per migranti, situato a Rosarno (in provincia di Reggio Calabria), regalando una testimonianza concreta di una vita spesa ad aiutare chi ha più bisogno. Non mancano passaggi drammatici nella sua narrazione, come l’episodio di quattro immigrati morti carbonizzati o l’ultima tragedia, accaduta nel 22 marzo 2019, quando un incendio, partendo da un angolo di una tenda da sei posti dove erano presenti diversi cavi elettrici, sarebbe divampato costando la vita ad uno degli ospiti di una tendopoli.
Un campo di accoglienza per chi arriva dall’altra pare del mare, da un altro continente: tende e centinaia di baracche, tutte attaccate tra loro, costruite in legno, plastica o qualsiasi materiale, sperando che sia abbastanza resistente. Esseri umani disperati, obbligati a dormire su cartoni e ad usare come coperta abiti vecchi o stracci rotti, per non parlare delle terribili condizioni igieniche a cui sono costretti. In una tenda ci vivono sei/otto braccianti. Qui vivono più di 250 persone senza luce, senza riscaldamento, senza un futuro.
Vincenzo Alampi, chiamato dagli amici Cecè, racconta agli studenti le peripezie di migliaia di uomini che dall’Africa approdano nel nostro Paese alla ricerca di un lavoro e di un riscatto.
Come e quando è nata e l’iniziativa Caritas di accoglienza dei migranti?
«Posso dire di averla nel cuore da sempre, non tanto in quanto azione della Caritas ma quanto della carità, poiché la Caritas è una struttura, mentre la carità è un sentimento. Un’altra parola per dire carità è amore. Spesso per carità si intende l’aiuto materiale, dare qualcosa da mangiare o dare dei soldi, ma quella è solo una parte della carità: la carità vera è il rapporto personale che si instaura con una persona in difficoltà, perché non c’è persona che, a prescindere dalla propria situazione, non possa dare qualcosa. È bellissimo quando si dà, per esempio, l’amicizia, l’amore, così come bellissimo è il rapporto fraterno, umano, che nasce. Bisogna partire da questi rapporti per creare un’azione, perché senza di essi, tutte le altre cose sono niente, sono solo strutture, che tanti altri possono fare. C’è un passaggio del Vangelo molto bello, sulla carità, l’obolo della vedova. Negli antichi templi, c’era la cassa del tesoro, era una cassa dove si mettevano i soldi. Arrivò uno ricco e mise tanti soldi, ne arrivò un altro e mise tanti soldi, arrivò poi una vedova che mise pochi soldi. Gesù, dopo aver interpellato gli apostoli, dice che era stata proprio la vedova a donare più di tutti perché lei ha dato tutto ciò che aveva, mentre i ricchi hanno offerto solo una piccola parte della loro ricchezza. Anche per noi è staro così: quando abbiamo raccolto i soldi, abbiamo constatato che la maggior parte arrivava dai poveri, i ricchi non si sono avvicinati».
Perché ha deciso di dedicare la sua vita a tutto questo?
«Anche io ha vissuto un episodio particolare nella mia vita: mio padre è stato ucciso dalla mafia e ho pensato che continuare nell’odio, nella vendetta, porta solo ad altre vendette, il sangue porta sangue. Allora io ho perdonato gli assassini di mio padre. Sull’altare della chiesa, durante il suo funerale, ho detto: “Io e la mia famiglia perdoniamo gli assassini, e preghiamo per loro, poiché anche loro si possano convertire; possa la nostra società diventare una società nuova, di persone che collaborano insieme per la buona riuscita della civiltà dell’amore, del bene e dell’aiuto reciproco”. In quel momento mi sono sentito liberato, perché mio padre ha dedicato la sua vita per gli altri, lui è morto per aiutare gli altri, è morto perché lui tutti i giorni andava ad aprire il pozzo per le persone del paese, che altrimenti non avevano acqua. Il giorno che è morto, gli assassini aspettarono che la maggior parte delle persone fosse andata; mio padre si attardò a chiudere il pozzo, e fu proprio allora che lo ammazzarono. Io ho sempre letto questa pagina dolorosa della mia vita come un’opportunità, una forte spinta a fare del bene.»
Cosa vogliono dire per lei le parole SPERANZA e SOLIDARIETÀ?
«Sono il più grande incoraggiamento che si possa dare a coloro che sono in difficoltà. Intanto la solidarietà umana è sapere di poter contare su qualcuno, senza uno scambio materiale, concreto, solo uno scambio di vicinanza, la pacca sulla spalla, un sorriso, un abbraccio. Questo è anche dare speranza, incoraggiare, dire a chi ha bisogno: “Tu non sei ultimo, tu non hai perso, non sei uno sconfitto, tu sei un vincitore e puoi farcela come tanti altri hanno fatto”. Ed è importantissimo parlare, come due amici che si raccontano la propria storia. Io mi metto sempre di fianco alla persona bisognosa e, per primo, gli racconto delle mie difficoltà, dei miei problemi; e così si instaura un rapporto alla pari, e ciò gli dà fiducia, permettendogli di rispondermi con sincerità e spontaneità. Parlando si diventa come amici che si scambiano le proprie disavventure e le proprie speranze. Solidarietà e speranza sono questo: dare vicinanza, abbattere i muri che si creano, offrire il proprio sostegno. Noi siamo come gocce, e le gocce insieme possono diventare un mare, un mare di bene, trasformando le difficoltà in nuove opportunità».
Cosa si prova vedendo, ogni giorno, tutti questi giovani migranti ?
“Prima di tutto mi dà un grande senso di umanità e speranza, perché vedo dei giovani pronti ad impegnarsi, a fare sacrifici: per questo affrontano un viaggio complicatissimo, per costruirsi una vita nuova. Nonostante la loro ignoranza, nel senso che non hanno istruzione, non sanno leggere o scrivere, hanno coraggio, con sofferenza abbandonano le loro famiglie, gli amici, i loro animali, la loro vita vecchie. Non approdano in Italia per se stessi, vengono per aiutare i loro cari e ciò è una dimostrazione di grande solidarietà e speranza. Poi avverto però anche un senso di frustrazione, perché ancora non si è riusciti a fermare lo sfruttamento dei popoli in Africa, derubandoli delle loro risorse naturali. Eppure i governi mondiali non sono riusciti a risolvere queste terribili situazioni. Si dovrebbe cercare di sostenerli nella loro terra, per evitare il dramma di abbandonare gli affetti più cari. Quando arrivano da noi lavorano duro, faticano, per un futuro migliore e con la speranza di rivedere le persone amate».
Secondo lei cosa si potrebbe fare, a livello nazionale ed internazionale, per migliorare questa politica di accoglienza?
«Bisogna mettere da parte ogni egoismo. Ogni nazione mette davanti a tutto il proprio interesse, un interesse momentaneo, effimero, perché in quel momento hanno paura di accogliere. Le nazioni europee dovrebbero collaborare per organizzare l’accoglienza di queste persone che migrano contro la loro volontà – se avessero le possibilità starebbero a casa loro – ed invece, proprio loro, i Paesi europei, che dovrebbero essere esempio di civiltà e democrazia, chiudono le frontiere, e respingono i migranti: questo egoismo va accantonato, bisogna mettere da parte l’orgoglio, per fare quanto possibile, cooperare, e ragionare su come risolvere la situazione».
È rimasto soddisfatto del livello di attenzione e interesse degli studenti del Viganò?
«Moltissimo: io li guardavo e vedevo chi piangeva, chi si era emozionato… dopo l’incontro tanti sono venuti a ringraziarmi. Erano tutti attenti, alcuni si distraevano un attimo, ma c’era l’amico di fianco che li invitava a non distrarsi. Un ragazzo mi ha guardato, dopo un attimo di distrazione, quasi per chiedere scusa, e questa cosa mi ha emozionato. La verità è che non mi ero preparato, ho proiettato alcune immagini ma non sapevo in principio cosa dire, non sapevo cosa aspettarmi. Non ho avuto il tempo di prepararmi, anche perché sono molto impegnato in quest’opera di aiuto: sono stato prima direttore della Caritas, ma poi il vescovo mi ha dato un compito importantissimo, quello di responsabile dell’Osservatorio delle Povertà, delle “Ultimanze”. Non sono stato molto organizzato nella mia testimonianza, ma ho parlato col cuore e spero che il messaggio sia arrivato. Sono fiducioso. Penso che tra voi giovani ci sia un futuro grande, ve lo auguro e credo che sia già dentro l’anima. Anche questa intervista è frutto di un’attenzione che voi avete verso un mondo che forse non vi apparterrebbe, ed invece è vostro».
C’è una frase, un pensiero, un insegnamento che vuole lasciare a noi ragazzi?
«Solidarietà e Speranza due parole, due atteggiamenti, due sentimenti, due motti del cuore che ci possono muovere a far sempre meglio. Bisogna essere solidali con gli amici, incoraggiarsi l’uno con l’altro, dando speranza».